Il Giaki era Giacomo, il Chini era Velia. Con questi soprannomi tutti maschili, intimi e misteriosi, si scrivevano. E con altrettanti soprannomi, Giacomo Matteotti e Velia Titta parlavano dei loro tre figli: Gian Carlo era Chicco o Chicchino, Matteo era Bughi e Isabella era Cialda.
Giacomo, allora incerto tra la politica e la carriera universitaria, conobbe Velia nell’estate del 1912, durante un soggiorno tra le montagne toscane. Lui aveva 27 anni, lei 22. Da quel momento, furono legati da un amore profondo e dominante. Nel 1916, nel pieno della guerra mondiale, si sposarono.
Nel 1918 ebbero il primo figlio. Giacomo, assorbito dal socialismo, prima in Polesine, poi a Montecitorio, considerò Velia un rifugio di consolazione e di pace. Lei, cattolica, di salute incerta, amante dell’arte e della letteratura (aveva scritto un romanzo, firmandosi con uno pseudonimo maschile), accettò gli impegni del marito con coraggio, con apprensione, ma anche con curiosità e partecipazione.
Diversamente da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, la politica non fu mai al centro del loro dialogo, ma, sullo sfondo, lo alimentava e lo condizionava costantemente.
Giaki, nelle lettere a Velia, mescolava i sentimenti con la scarna cronaca delle sue giornate e dei suoi impegni in giro per l’Italia, a cui accompagnava, non di rado, rapidi giudizi sugli uomini e sulle vicende della politica. Velia leggeva sui giornali i resoconti delle sedute della Camera. Restò lontana dalla vita pubblica del marito ma non estranea e, in alcune occasioni, ritenne giusto esprimere il proprio pensiero. Fu così anche quando arrivò il fascismo e Giaki ne divenne un bersaglio. Ma Velia, allora, aggiunse al suo amore una trepidazione sempre più angosciata e un allarme crescente che non le dava pace, accompagnato dal tarlo della stanchezza e del dubbio. Intanto, il socialismo, per il quale Giaki era vissuto, si frantumava e la vita di questa coppia felice precipitava nella lotta mortale e senza sosta del dopoguerra italiano. Il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti fu rapito e ucciso da sicari fascisti sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Aveva 39 anni. In quel momento, morì anche Giaki. Velia, che aveva 34 anni, restò sola. La sua fu la solitudine di chi aveva perso tutto. Cercò di dare un senso a quel sacrificio, ma vide negati intorno a sé ogni desiderio di giustizia e ogni illusione di pacificazione tra gli italiani. Presto si rifugiò in un’introspezione senza speranza, cercando di educare i figli all’esempio paterno. Quando il fascismo divenne regime, Velia sperimentò sulla sua pelle lo Stato di polizia, e fu sottoposta ad un controllo ossessivo e vessatorio di ogni movimento e di ogni frequentazione, in una sorta di vita sotto assedio. Si voleva ostacolare qualunque contatto con l’antifascismo e si temeva che la famiglia Matteotti potesse espatriare, portando all’estero coloro che rappresentavano la continuità del nome e del simbolo. Ma Velia, che era vissuta sempre lontana dagli ambienti del socialismo militante, non poteva immaginare per sé e per i suoi figli una vita da esuli politici.
Negli ultimi anni, la sua casa fu infestata da delatori che, facendo leva sulla sua prostrazione e sul rischio che la rovina economica potesse compromettere il futuro dei figli, la spinsero a chiedere un aiuto al regime, che così si adoperò per avvelenare la memoria di Matteotti dopo averne voluto la morte. Velia, senza poter vedere l’Italia libera, morì il 5 giugno 1938.
Questa è la magra sintesi dell’intreccio di due vite, della relazione privilegiata tra un uomo e una donna nati alla fine dell’Ottocento e vissuti nell’epoca bella, per poi arrivare all’appuntamento con la guerra, la pandemia e la violenza politica.
Tra il matrimonio e la morte di Giacomo trascorsero poco più di otto anni. Ebbero la loro prima casa a Roma solo nel 1923, quando si stabilirono in un appartamento al quartiere Flaminio. Prima di allora, la guerra, la politica, la mancanza di una dimora comune, tennero spesso lontani questi due amanti. Così furono costretti a comunicare affidando alla scrittura i propri sentimenti, surrogato di un’intimità troppo spesso irraggiungibile.
Ci restano 449 lettere di Giacomo e 214 di Velia. I due epistolari, riletti in parallelo, costituiscono la fonte primaria di questo libro, che ha l’andamento di una cronaca, nella quale il passato remoto si alterna al presente storico laddove il focus è sul dialogo tra i due amanti. Alle lettere, soprattutto dopo il 1918, quando l’impegno politico di Giacomo diventa preminente, sono stati aggiunti brani tratti dai quotidiani dell’epoca – soprattutto il «Corriere della Sera», che Velia leggeva abbastanza regolarmente – e dai resoconti delle sedute a Montecitorio, che sui quotidiani avevano allora uno spazio molto ampio. Altre fonti sono elencate nella nota bibliografica che segue. In particolare, sono state valorizzate le testimonianze che ci aiutano a comprendere la precoce e impari battaglia di Matteotti contro il fascismo, perché il rapporto con Velia ne fu progressivamente e sempre più drammaticamente condizionato.
Il carteggio con la moglie, fonte conosciuta e citata dalla storiografia su Matteotti, non è mai stato studiato in modo organico, forse perché troppo intimo e relativamente povero di fatti, di giudizi politici, o di discussioni teoriche. In realtà, la sua ricchezza è data da altro.
In primo luogo, è raro, come in questo caso, che un insieme di documenti ci dia la possibilità di entrare così a fondo nella relazione affettiva di un uomo e di una donna e coglierne, nello stesso tempo, i legami con la realtà drammatica che li circonda. Leggere le lettere di Giacomo Matteotti e Velia Titta ci permette di aprire una grande mappa ripiegata e delicatissima, sulla quale osservare i luoghi misteriosi, i percorsi e i confini del dialogo di due anime che avevano voglia di vivere insieme una vita profonda, diversa, in parte lontana dal proprio tempo. Tutti e due, in qualche modo, sembrano fuggire, sembrano anelare ad un irraggiungibile traguardo di pienezza e di appagamento, destinato a scontrarsi con la realtà. Questa aspirazione li avvicinò, oltre l’amore, e annullò, in gran parte, le differenze che dividevano un uomo e una donna borghesi dell’inizio del secolo scorso. Nello stesso tempo, attraverso il lungo dialogo con Velia, possiamo illuminare aspetti nascosti dell’animo di Giacomo Matteotti, a cui forse non sono estranee le ragioni del suo pensiero e della sua azione politica. Fu Piero Gobetti, nell’opuscolo del 1924, a intuire, dietro la «maschera rigida» del giovane socialista che aveva conosciuto pochi mesi prima, una «vita interiore di impulsi vari e profondi» che lo ispirava senza sosta. Questa vita interiore si fa strada soprattutto nelle lettere scritte tra il 1912 e il 1918, quando Giacomo è costretto ad aprire il proprio animo e sembra rivelarlo a se stesso, prima ancora che alla donna che ama.
Inoltre, Matteotti, uomo di partito, fu espressione, all’interno della classe dirigente socialista, di una originale diversità che le testimonianze e la storiografia hanno più volte messo in chiaro. Dotato di una inesauribile energia che gli derivava da forti convinzioni e da un’insopprimibile volontà di azione, fu un politico lontano dagli schemi ideologici e dal settarismo, consapevole – con un occhio sempre attento al suo Polesine – della complessità dei processi di riscatto economico e morale del proletariato, ed un
parlamentare attento ai fatti, ai documenti, intransigente ma pronto, se necessario, alla collaborazione con le rappresentanze della borghesia più sana.
Tutti questi caratteri peculiari, per indole e formazione, si ritrovano leggendo in controluce le lettere a Velia. Non c’è un Matteotti “segreto”, ma gli spiragli che Giacomo apre sulla vita parlamentare, i giudizi su uomini e avvenimenti, gli stessi silenzi, liberi dai vincoli delle dichiarazioni pubbliche,
ci restituiscono una personalità più sfumata e tormentata. Matteotti tiene la vita privata ben al riparo dalla politica, ma quest’ultima, rielaborata e filtrata, entra nel dialogo a distanza con Velia più spesso di quanto si possa pensare. Qualche volta, quasi per scusarsi delle energie e del tempo sottratto alla moglie. Altre volte, con brevi accenni, per parlare di se stesso, delle proprie speranze, della fatica di tener fede alla tensione ideale che lo trascina, oppure per farsi testimone delle battaglie nelle quali è immerso.
Si è cercato di estrarre queste scarne note, sempre funzionali alla conversazione intima con Velia, per collocarle, soprattutto dal 1919 in poi, nel contesto della realtà che si andava formando. Nel corso del biennio rosso, rispetto alle dichiarazioni pubbliche, ci appare allora un Matteotti più esitante, più scettico, più preoccupato sulle prospettive del movimento socialista o sulla maturità di quel proletariato per cui combatteva: «Qui tutto si ripete come in antico: la gente non capisce niente fuor del proprio interesse immediato». Qualche volta, ciò che raccontava rispondeva alla volontà di entrare in sintonia con la moglie, quasi le parlasse immaginando di averla al fianco e potesse vedere il mondo con gli occhi di lei, toccando le corde della sua sensibilità.
Un esempio di poco conto, ma indicativo, è il viaggio di Matteotti in Abruzzo, nel 1920, in occasione del primo maggio. Sui giornali locali e sull’«Avanti!» si accenna al grande comizio di Chieti del «valente ed elegante oratore» che critica il regime borghese e disegna il futuro socialista. In occasione
del tour di propaganda nei paesi della provincia, Matteotti incontra i militanti locali e conosce alcuni intellettuali di provincia che si sarebbero avvicinati al partito, come, ad esempio, l’avvocato Pasquale Galliano Magno. In una lettera a Velia del 4 maggio, il viaggio è descritto sotto una luce diversa. Matteotti si sofferma sui piccoli scugnizzi che battono le mani durante il comizio, sull’attrattiva dei paesaggi dannunziani, sulla simpatia ed il «parlare imaginoso» degli abruzzesi, sull’amicizia con il parroco di Guardiagrele, che gli regala due opuscoli di archeologia locale, per concludere accennando
all’incontro, a Rapino, con i fratelli Tommaso, Basilio e Michele Cascella e all’idea di un’attività imprenditoriale volta a produrre «oggetti d’uso e belli per tutti, e non per una ristretta cerchia aristocratica». Giacomo riservava a Velia questi dettagli che ci rivelano la sensibilità e le curiosità di
un borghese colto, anche perché sapeva che la moglie li avrebbe apprezzati.
In seguito, sotto i colpi del fascismo, gli eventi si fanno più drammatici e gli è impedito il ritorno nella sua terra. Allora la permanenza a Roma diventa un esilio e i riferimenti alle manovre parlamentari si fanno più numerosi. In qualche caso, sembra che Giacomo metta le vesti del cronista parlamentare,
che voglia quasi spiegare meglio quello che Velia poteva leggere sui quotidiani. Si avverte la volontà di comunicare l’inadeguatezza del proprio partito e delle classi dirigenti di fronte al pericolo fascista, non percepito nella sua gravità, e il rammarico nel vedere quanto la sua fede fosse ormai un ostacolo alla felicità della sua famiglia.
Infine, soprattutto quando assume la segreteria del Partito socialista unitario nato dalla scissione del settembre 1922, anche i silenzi, nelle lettere di Giacomo, diventano eloquenti. Nascondono una parte della realtà che tuttavia Velia intuisce, su di uno sfondo di paure e di presentimenti, e rivelano la convinzione che la sfida alla “dominazione” fascista debba essere condotta fino alle estreme conseguenze.
Il carteggio tra Giacomo Matteotti e Velia Titta resta un dialogo intimo, destinato ad essere trasformato, e infine travolto e soffocato, dall’irrompere violento della storia. Si può solo aggiungere che, in ogni circostanza, Giacomo ha voluto comunicare la pace interiore ed il coraggio che il dialogo con Velia gli dava. Come scrisse in una lettera del 1923, il suo animo si piegava costantemente verso di lei per avere aiuto «nella ricerca della via migliore», per poter leggere, nei suoi occhi, «la verità intera».
Foto © Eredi Titta Bernardini
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