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Velia Titta



Velia Titta  (1890-1938) era una ragazza che proveniva da una modesta famiglia di artigiani di origine pisana, che, per una serie di circostanze eccezionali, si ritrovò a vivere una vita borghese ed agiata. Il padre Oreste (1851-1904), era titolare a Roma di un’officina per la lavorazione del ferro battuto. 
Dei sei figli, solo il primo, Ettore, fece le elementari, e poté poi essere mantenuto agli studi, che dall’età di quindici anni proseguì al Conservatorio di Santa Cecilia. Gli altri figli erano destinati al lavoro di artigiano o a modesti matrimoni. Ma ciò che cambiò il destino di questa famiglia fu l’improvvisa e prepotente vocazione canora del secondogenito, Ruffo Cafiero, che, all’età di 14 anni, scoprì, dopo aver assistito ad una rappresentazione di Cavalleria rusticana, una vocazione lirica e una straordinaria voce baritonale. Ruffo, che ben presto invertì il nome ed il cognome e si fece chiamare Titta Ruffo.
Velia, ultima nata, trascorse la prima giovinezza all’ombra del fratello e delle sorelle che, nella nuova condizione sociale, poterono fare matrimoni importanti. In particolare, Nella sposò il giornalista del «Corriere della sera», Casimiro Wronowski. Fosca e Settima sposarono due fratelli di nazionalità boema, gli imprenditori Emerich (Emerico) e Guglielmo Steiner.
Velia non era bella, non era alta. Ebbe sempre una salute incerta, come dimostrano le sue gravidanze, tormentate e debilitanti. Alcuni ritratti giovanili a figura intera, sia quelli realizzati in studio, che pure hanno il fascino della belle époque, sia quelli apparentemente più spontanei, ci mostrano un fisico che appare più vicino ad una ragazza del popolo che ad una dama. Ma la sua personalità, la cultura intrisa di spiritualismo, la delicatezza dei modi, accentuati da un aggraziato accento toscano, ne facevano una donna che non passava inosservata.
Era profondamente religiosa, cattolica, tanto da aver accarezzato l’idea di diventare suora, ma non era bigotta. Amava la musica e l’arte, soprattutto quella toscana del primo rinascimento. Lesse molto, scrisse fin da giovanissima. Non coltivò l’impegno politico o le istanze per l’emancipazione femminile, ma anche lei, a suo modo, interpretò il modello culturale della “donna nuova” di inizio secolo.
Nel 1910, diede l’esame di licenza alla Scuola normale femminile di Pisa, gli studi più consueti, a quel tempo, per una ragazza della piccola borghesia. Nonostante ciò, fin da adolescente, coltivò una vocazione letteraria consapevole.
La scrittura era per Velia molto importante, come si deduce dalla raffinatezza delle lettere al marito. Pubblicò due brevi raccolte di poesie tra i 16 e i 18 anni e scrisse anche, con lo pseudonimo maschile di Andrea Rota, un romanzo, il cui titolo era L’ idolatra, pubblicato dall’editore Treves nel 1920.
È un romanzo fatto in gran parte di dialoghi, con una trama molto esile: la storia di Dani, un uomo che torna nella sua Pisa dopo 10 anni, nella bottega antiquaria di Landino, dove aveva trascorso la giovinezza, ormai privo dei genitori. Nella bottega incontra di nuovo Lela – l’amore inespresso di un
tempo – esperta di restauro, anche lei senza famiglia perché separata dal marito, anche lei cresciuta nella casa di Landino. I due si confessano l’amore.
Dani le chiede di seguirlo ma Lela non ha il coraggio di lasciare la casa di Landino e la sua vita, ma decide di concedersi, e lo confessa al prete, don Geri, malato di tisi:

Ho aspettato col fuoco nelle carni, come il cero che si rifà sulla sua goccia. Basta, adesso basta, non poteva durare così, quella era la nostra sorte, la mia fede.

Diventa così l’idolatra, colei che, abbandonata la fede, si rifugia nella venerazione dissennata e senza speranza dell’amato. Il suo destino è sfiorire e morire, mentre anche la bottega va in rovina. Nel romanzo vi sono alcuni ambienti che Velia conosceva bene, a cominciare dalle botteghe d’arte di Pisa. Ma il libro resta all’interno di un mondo chiuso, dove la religiosità, non a caso rappresentata da un prete profondamente malato, cede il passo al fuoco interiore della protagonista. Come in questa prova letteraria, i confini che Velia aveva dato alla sua vita e che giudicava naturali, coincidevano con la sfera dell’introspezione e degli affetti. 
In questa sfera, in questo mondo spirituale, entrò Giacomo, uomo socialista e anticlericale, apparentemente molto lontano dai suoi orizzonti.


Su Velia Titta sono molto importanti le introduzioni di Stefano Caretti ai volumi G. Matteotti, Lettere a Velia, Nistri Lischi, Pisa 1986; V. Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, Nistri Lischi, Pisa 2000. Poi, Alberto Aghemo, Velia Titta Matteotti: uniti in qualsiasi lotta, «Tempo Presente» (Roma, ottobre- dicembre 2000, n. 478-480, pp. 73-84. Importante ora anche il capitolo Giacomo e Velia. L'epistolario sconosciuto, nel volume di Giampaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Firenze-Milano, Bompiani, 2024.
Si veda anche la ricostruzione delle vicende drammatiche di cui fu protagonista, narrate nella forma di un immaginario epistolario alla madre, di Laura Fagiolini, Velia. La dignità contro il regime, Roma, Intrecci, 2022.



Foto Archivio Origoni Steiner, Milano

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