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Giacomo Matteotti




Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, paese che, al censimento del 1901, contava 2983 abitanti. Il padre si chiamava Girolamo, la madre Elisabetta Garzarolo. La sua famiglia, di origine trentina, aveva a Fratta Polesine un negozio che, nella Guida commerciale d’Italia del 1908, era citato nelle categorie dei “chincaglieri” e dei “ferramenta”.
Partendo da una condizione molto modesta, con risparmi e  accorte speculazioni, i Matteotti avevano accumulato una fortuna che consentì ai tre figli che raggiunsero l’età adulta (Matteo, Giacomo e Silvio, altri quattro morirono bambini) di vivere una condizione sociale borghese. Tutti e tre, peraltro, morirono giovani, due di tisi e, per ultimo, Giacomo, che già nel 1910, era l’unico superstite di una prole così numerosa. 
 
Piero Gobetti scrisse che la famiglia Matteotti possedeva, prima della guerra, circa 800.000 lire di beni immobili «tutti sparsi nella provincia, in piccoli lotti, comprati d’occasione di anno in anno».  Si possono fare calcoli diversi ma resta il fatto che si trattava di una condizione di benessere del tutto eccezionale nel Polesine. Giacomo era un uomo piuttosto ricco, non solo in confronto ai braccianti che lavoravano nelle sue terre. La sua mentalità e le sue abitudini erano borghesi, perfino aristocratiche nello stile: viaggiò in Europa per ragioni di studio, conosceva il francese, l’inglese, il tedesco, amava l’arte, la musica classica, il teatro. Non se ne vergognò mai, ma questa condizione, quando cominciò ad occuparsi di politica, fu un ricorrente motivo di polemiche e di commenti velenosi. In particolare, gli agrari del Polesine lo considerarono un ambizioso traditore della propria classe e non mancarono sospetti e diffidenze anche all’interno del Partito socialista.
Ma come accadde che un giovane benestante, destinato alla cura dei propri beni, oppure agli studi e alla professione, dedicasse tutta la sua vita a quei braccianti che lavoravano nelle campagne della sua terra e agli ideali del socialismo? 
Prima di tutto, già dagli anni Novanta dell’Ottocento, la gioventù colta guardava al socialismo, il socialismo di Carlo Marx, come ad un nuovo risorgimento ideale, nei termini che sono stati descritti da Benedetto Croce nella Storia d’Italia: 

… [giovani] bramosi di una luce dall’alto, di un fuoco per le loro anime, di un fine a cui tendere le forze, che non fosse alcuno dei piccoli fini della vita pratica e professionale, di un fine che avesse valore universale ed etico.
 
Vi era, tuttavia, qualcosa di più importante di un’astratta aspirazione ideale da parte di un giovane intellettuale appartenente al ceto borghese. Vi era la dura realtà sociale che lo circondava. Fin da ragazzo, Matteotti vide da vicino la vita miserabile dei braccianti che lavoravano nelle proprietà di famiglia, conobbe la conflittualità spesso aspra e violenta presente nel Polesine e le espressioni dell’attività sindacale e politica guidate dal Partito socialista. Nel 1921, lo stesso Matteotti, parlando alla Camera della ormai inevitabile necessità di reagire alle violenze fasciste, ricordò le origini della sua vocazione socialista: «…noi giovani, specialmente, provenienti dalle classi borghesi, abbiamo abbracciato l'idea socialista per un alto ideale di civiltà e di redenzione insieme delle nostre plebi agricole». [AP, 2-12-1921]
Giacomo era figlio di una terra dove la povertà era diventata proverbiale, aveva meritato dibattiti parlamentari e aveva causato un’emigrazione spaventosa. 
Se oggi la provincia di Rovigo è la meno prospera di una regione ricca come il Veneto, allora era una delle più drammaticamente povere d’Italia. Le bonifiche della seconda metà dell’Ottocento e la conduzione capitalistica delle terre bonificate avevano innescato un processo di proletarizzazione della popolazione attiva, con la conseguente creazione di un esercito di braccianti e di avventizi, che, all’inizio del Novecento, superava la metà degli addetti. Le lavorazioni estensive di grano, mais, canapa e poi barbabietola da zucchero, erano alle origini di un forte squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, poiché assorbivano e concentravano, nei periodi di semina e di raccolta, migliaia di lavoratori stagionali ed avventizi che però restavano disoccupati nel resto dell’anno. Destino di questi braccianti era la povertà, la migrazione transoceanica - verso il Brasile soprattutto - e la pellagra, il “mal della miseria”, un tempo scambiata per lebbra, dovuta alla situazione di indigenza, all’alimentazione basata solo sul mais e alle condizioni igieniche.
Come disse alla Camera il 18 giugno 1901, Nicola Badaloni, il deputato socialista della generazione precedente a quella di Matteotti:

Ma, o signori, bisogna aver vissuto nel Polesine, bisogna essere entrati nelle case della povera gente, bisogna aver visto come vive, aver detto a quei disgraziati la parola di conforto nell’ora della tribolazione ed aver sentito la propria impotenza di fronte alla loro miseria: oh! Allora, credetemi, ben diversa da quella che può apparire a chi vivendo nelle città, riassume dalle colonne dei giornali e dalle relazioni degli interessati le impressioni che porta alla Camera, appare la condizione di questa nostra disgraziata provincia. 

Proprio questa proletarizzazione del lavoro agricolo aveva dato ai socialisti grandi opportunità per forme di organizzazione sindacale e politica che miravano a difendere i lavoratori dallo sfruttamento. La principale era quella delle leghe bracciantili su base territoriale, che corrispondevano ai sindacati delle aree industriali e si contrapponevano alle organizzazioni degli agrari. Intorno alle leghe, i socialisti furono in grado, soprattutto dalla fine dell’Ottocento, di costruire un tessuto politico e culturale che era fatto di cooperative, di circoli culturali, di associazioni ricreative e che trovava nelle case del popolo il punto di raccordo più visibile sul territorio. 
Questo era il mondo che Giacomo aveva conosciuto. Anche per lui, come per tanti altri giovani, il socialismo fu un ideale assimilato attraverso gli affetti familiari. Fu socialista per contaminazione. Per questo fu sempre malato di socialismo. Giacomo infatti crebbe nel culto del fratello maggiore, Matteo (1876-1909), morto prematuramente di tisi, studioso di economia e autore, nel 1902, di un libro sull'assicurazione contro la disoccupazione. Matteo Matteotti aveva studiato presso la Scuola superiore di commercio di Venezia e poi presso il Laboratorio di economia politica istituito nel 1893 a Torino, dove era stato compagno di studi di Luigi Einaudi. Nel percorso intellettuale e politico di Matteo, si ritrovano molti aspetti che appartengono alla biografia e alla personalità di Giacomo, che era di nove anni più giovane: la vocazione scientifica, l’esperienza nelle amministrazioni locali, l’impegno precoce nell’ala riformista del socialismo locale, l’attenzione alla statistica, la conoscenza delle lingue straniere, i viaggi di studio all’estero. 
Con la morte del fratello, Giacomo aveva perso un riferimento morale e una guida nella formazione politica e nello studio, colui che gli aveva fatto da battistrada nel superamento della condizione di isolamento culturale della propria famiglia. In qualche modo, nel suo animo, Velia lo aveva sostituito. Giacomo lo scrisse apertamente alla sua futura moglie:

Io ho ancora l’impressione chiara fin dalle prime volte che ho stretto nelle mie la tua mano, della tua capacità di supplire sopratutto quell’ultimo affetto più grande che avevo perduto, di ridarmi quel senso benefico che mi dava la vicinanza vigile di lui che mi voleva bene.
Perché forse egli neppure pensava che io lo amassi molto; gli bastava di rivivere in me tutte le ansie i lavori i sogni le ambizioni della mia giovinezza finita, e mi circondava di quella stessa indulgenza che ognuno di noi ha verso i suoi propri difetti; e niente di tutto questo mai mi diceva. [Gennaio 1915]

Lo ripeteva qualche anno dopo, quando faceva leggere alla moglie i primi risultati di un suo studio  sulla Cassazione: «Ora tu hai sostituito mio fratello Matteo; mi pare che quando vengo a portarti poco lavoro compiuto, mi debba rincrescere e quasi vergognare, come allora a lui» [agosto-settembre 1918]. Due mesi prima Velia gli aveva raccontato di aver sognato Matteo che si accostava alla culla del figlio Giancarlo, nato da tre settimane. Anche lei aveva assorbito e custodiva dentro di sé questo legame profondo e misterioso: 

Quello che ho sognato stanotte doveva proprio essere tuo fratello Matteo, così come sta in quella lastra fotografica tra i monti. Ma non aveva il cappello. Egli si è accostato piano alla culla e ha sollevato il velo per guardare il bambino. Non so quanto tempo sia rimasto così. In camera vi era il piccolo lumino che ci tengo per la notte, ma io vedevo che i suoi occhi erano lucidi di commozione, e avrei voluto chiedergli qualche cosa. Però gli ho detto di sedersi e di prendere pure il bambino. Ma egli non ha voluto. Mi ha dato invece una carta da consegnarti. Chi sa che cosa era: tante strane immagini si associano insieme. [11-6-1918]

Che aspetto aveva Giacomo? Una foto che risale al giorno del suo matrimonio, nel 1916, ne accentua i tratti delicati e l’eleganza del portamento. Nei ricordi di tanti compagni ed amici, e anche nelle lettere di Velia, ricorre sempre l’espressione giovanile degli occhi e del sorriso, quasi da ragazzo, e il portamento snello e agile. Un suo compagno di partito, Oddino Morgari, lo avrebbe ricordato così, dopo la morte: «piuttosto esile, snello, slanciato, molto distinto; gli occhi grigi bene aperti, la fronte piccola ed energica; il volto giovane, sempre rasato all’inglese, per lo più sorridente, altre volte distratto; il passo svelto ed elastico che lo faceva superare di volo i corridoi e le scale» [Schiavi 1957, p. 43-44]. 
Matteotti fece il liceo a Rovigo che dista meno di 20  km da Fratta, ospite di amici di famiglia. Poi studiò giurisprudenza a Bologna, dove si laureò con lode il 7 novembre 1907, con una tesi in diritto penale. A Bologna, risiedeva in camere destinate ai giovani più abbienti oppure in albergo. Il suo maestro fu Alessandro Stoppato, un penalista veneto e un grande avvocato, che divenne deputato negli anni in cui Matteotti studiava e fu rieletto anche nel 1909 e nel 1913 per poi essere nominato senatore. Stoppato era un conservatore, un liberale, che ebbe Matteotti in grande considerazione e avrebbe voluto portarlo in cattedra. Matteotti, per un certo periodo, nei primi anni dopo la laurea - e anche in seguito, per la verità - sembrò accarezzare questa idea. Dal 1906 al 1908, risiedette a Roma, in via Florida n. 8, presso Largo Argentina, per preparare la sua tesi che fu pubblicata, nel 1910, per l’editore Treves, con il titolo La recidiva: saggio di revisione critica con dati statistici. Stoppato arrivò a citare questo suo allievo durante una discussione alla Camera dei deputati sul bilancio dell’interno. In un passaggio sulla necessità di abolire il domicilio coatto, fornì alcuni dati sulle recidive e affermò:  «Se prima dell'assegnazione il 21 per cento dei coatti erano senza mestiere e vagabondi, dalle ultimissime statistiche pubblicate da un valente giovane studioso, il Matteotti, risulta che dopo la assegnazione il 21 diviene il 47 per cento». [AP, 3 giugno 1910, p. 7858].
Queste esperienze, queste frequentazioni, queste prospettive di vita, erano quelle di un giovane borghese che poteva permettersi di approfondire i suoi studi viaggiando nelle capitali d’Europa. Eppure, come si è detto, questo ragazzo uscito dall’università e destinato all’università, aveva dentro di sé un mondo di slanci ideali che lo avrebbe condotto per altre strade, assai più impervie. 
Torniamo allora all’età adolescente. Nel 1901, a sedici anni, quando era già iscritto da qualche anno alla gioventù socialista, scrisse il suo primo articolo sul giornale polesano «La Lotta», con il titolo La lotta semplice, dove si cercava di spiegare ai lavoratori la necessità di cambiare la propria condizione. Il mondo infatti poteva cambiare: il treno, il telegrafo, il telefono, la macchina per tessere, lo stavano a dimostrare: «Se sono stati possibili tanti e tanti miracoli, perché non dovete credere ad un avvenire che v’assicuri un pane onesto, che segni il benessere della vostra famiglia, di voi stessi?». In questo primo scritto, già si intravede l’idea che l’emancipazione del proletariato dovesse passare attraverso la modernità, non contro di essa. Infatti Matteotti fu sempre per l’economia di scala, per lo sviluppo tecnologico e il superamento dell’isolamento dei contadini attraverso l’istruzione, le infrastrutture, la mobilità. Nel 1904 si iscrisse alla sezione adulti e, per alcuni anni, partecipò, insieme al fratello, alla vita del partito nella provincia polesana, contemporaneamente agli studi universitari, avendo come riferimento l’ala riformista e Nicola Badaloni, che appoggiò sia nelle elezioni del 1904 che del 1909. Dopo la laurea, nel 1908, entrò per la prima volta nel Consiglio comunale di Fratta Polesine e poi, successivamente, anche come sindaco, in diversi comuni della provincia, poiché la legge comunale e provinciale dell’epoca consentiva di essere eletti ed elettori in tutti i comuni in cui si avevano proprietà o si pagavano imposte. Nel 1910, fu eletto consigliere provinciale a Rovigo. Ben presto, dopo la partecipazione al congresso del Partito socialista di Ancona dell’aprile 1914 e con l’attività all’interno della Lega dei comuni socialisti, il suo nome superò i confini del Polesine.
Aveva una spiccata attitudine al lavoro amministrativo, che considerava, insieme all’istruzione, una delle palestre per la costruzione di una nuova classe dirigente. Matteotti partecipò malvolentieri agli accesi dibattiti teorici dei suoi anni. Il suo riformismo – ben radicato nella tradizione dei Turati e dei Prampolini - fu una costante tensione verso l’educazione e il riscatto morale, non solo economico, degli emarginati, una sorta di lento processo “rivoluzionario”, a cui diede il nome di “ricostruzione evolutiva” della società, basata sull’organizzazione, sull’istruzione e sull’educazione alla vita pubblica. Il paziente impegno nelle leghe, nelle cooperative, nei luoghi della socializzazione socialista (scuole serali, biblioteche, circoli di cultura ecc.) e poi all’interno delle amministrazioni locali, doveva creare le condizioni per favorire l’emancipazione dei lavoratori e allontanarli dalle osterie. 
L’attività amministrativa di Giacomo era frenetica, totalizzante:

Avviene sempre così delle cose care; sembra che gli altri non sappiano mai far bene abbastanza. Ricordo - in altro campo - quel che succedeva a me nelle amministrazioni: non mi accontentavo di preparare i bilanci o gli altri atti più importanti, ma in ogni più piccola cosa avrei voluto intervenire, e magari togliere la scopa di mano allo spazzino per insegnargli a pulire, perché mi pareva che nessuno facesse bene abbastanza in confronto di quello che desideravo. [11-6-1918]

In uno scambio di lettere del dicembre 1913 con Gino Piva, si definiva «un irregolare attratto per temperamento dalla politica, mentre la mia volontà sarebbe sempre ed esclusivamente rivolta ai miei studi penali» [1-12-1913]. È una frase di difficile interpretazione. Cosa significa essere attratti «per temperamento» dalla politica, in contrapposizione alla «volontà»? Sembra voler dire, forse, che la scelta politica è da ricondurre ad una sfera profonda e quasi istintiva.
Certo, la frenesia del suo impegno era anche un tratto caratteriale. Sentiva l’incontenibile ansia del tempo che passa. In una lettera a Velia scriveva che da ragazzo rompeva gli orologi, quasi per fermare il succedersi dei minuti [marzo 1915]. Aveva,  poi, un mondo interiore quasi impenetrabile che si sposava a convinzioni fermissime, senza timori reverenziali verso nessuno, al punto di apparire arrogante. Fu Piero Gobetti a descrivere nel modo più efficace un carattere originalmente introverso: 

La sua difficoltà di conoscere le persone e di essere conosciuto per quel che valeva rientrano in un austero culto del silenzio, in una ferrea sicurezza di sé. In lui era fondamentale la difficoltà di comunicare, il disagio di esprimersi proprio di tutte le anime fortemente religiose; che si traduceva in una indifferenza per le opinioni correnti, audace sino ad assalire le fame più inconcusse.[...] La sua autorità fu sempre grande tra le masse che sentono d’istinto il valore del sacrificio. I contadini dei paesi sperduti che lui visitava la domenica invece di pipare alle feste ed ai banchetti di città non se ne dimenticavano più.  [Gobetti 1924, p. 19, 24]

Anche da questi elementi caratteriali deriva quanto c’è di originale nel riformismo di Matteotti, che si muoveva nella prospettiva di una società socialista, ma era convinto che questo obiettivo non fosse l’esito scontato di un processo storico ineluttabile né il frutto di un’esplosione rivoluzionaria. Era necessario un lavoro di trasformazione, un impegno costante, sotto una guida accorta, duttile, spregiudicata, ma anche profondamente morale di una nuova classe dirigente socialista, pronta ad alternare il compromesso con la più rigida intransigenza, in base alle circostanze. Perciò Matteotti si definiva «riformista rivoluzionario» o meglio «riformista perché rivoluzionario». 
Le condizioni per esercitare questa «ricostruzione evolutiva della società» erano, a ben vedere, tutte giuridiche. Il socialismo poteva affermarsi nella cornice dei diritti costituzionali, non contro, né a prescindere da essi. Forse questo era il fattore fondamentale dell’idea di socialismo di Matteotti. Fare entrare il popolo nello Stato di diritto, attraverso una classe dirigente più matura e consapevole: costruire il socialismo dentro le persone, senza abbattere lo Stato.


Per approfondire:

La voce Matteotti in Wikipedia.
La voce Matteotti di Mauro Canali, nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 72 (2008)

Tra i libri pubblicati in occasione del centenario della morte:
Stefano Caretti-Marzio Breda, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Milano, Solferino, 2024.
Mimmo Franzinelli, Mussolini e Matteotti. Vite parallele, dal socialismo al delitto politico, Milano, Mondadori, 2024.
Mirko Grasso, L'oppositore. Matteotti contro il fascismo, Roma, Carocci, 2024.
Federico Fornaro, Giacomo Matteotti. L'Italia migliore, Torino, Bollati Boringhieri, 2024.
Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Milano-Firenze, Bompiani, 2024.

Foto © Eredi Titta Bernardini

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