La grande storia d’amore tra Giacomo Matteotti e Velia Titta si rivela attraverso le centinaia di lettere che i due amanti, poi marito e moglie, si sono scambiati dal 1912 al 1924. Il centenario della morte è l’occasione per ricostruire un rapporto affettivo che fu di straordinaria importanza per Matteotti, nonostante Velia non avesse le sue passioni politiche e sia vissuta sempre lontana dagli ambienti del socialismo militante. Ne nasce una “cronaca” che, attraverso l’epistolario e altre fonti, illumina non solo la vita tormentata di una famiglia borghese ma anche aspetti dell’animo di Giacomo Matteotti, a cui – come scrisse Gobetti – non sono estranee le ragioni del suo pensiero e della sua azione politica. Gli spiragli che, nel dialogo intimo con Velia, Giacomo apre sulla vita parlamentare, i giudizi su uomini e avvenimenti, gli stessi silenzi, ci restituiscono una personalità più sfumata e tormentata. Fu così anche quando arrivò il fascismo. Giaki ne divenne un bersaglio e la v
Il Giaki era Giacomo, il Chini era Velia. Con questi soprannomi tutti maschili, intimi e misteriosi, si scrivevano. E con altrettanti soprannomi, Giacomo Matteotti e Velia Titta parlavano dei loro tre figli: Gian Carlo era Chicco o Chicchino, Matteo era Bughi e Isabella era Cialda. Giacomo, allora incerto tra la politica e la carriera universitaria, conobbe Velia nell’estate del 1912, durante un soggiorno tra le montagne toscane. Lui aveva 27 anni, lei 22. Da quel momento, furono legati da un amore profondo e dominante. Nel 1916, nel pieno della guerra mondiale, si sposarono. Nel 1918 ebbero il primo figlio. Giacomo, assorbito dal socialismo, prima in Polesine, poi a Montecitorio, considerò Velia un rifugio di consolazione e di pace. Lei, cattolica, di salute incerta, amante dell’arte e della letteratura (aveva scritto un romanzo, firmandosi con uno pseudonimo maschile), accettò gli impegni del marito con coraggio, con apprensione, ma anche con curiosità e partecipazione. Diversamente